Incipit
Franca, mia mamma, mi avvicinò all'escursionismo montano nel 1980. Non avevo ancora 10 anni. Poi venne l'alpinismo giovanile del CAI Biella. Bellissimo, ma dicevo: «Mai sui ghiacciai; ci sono i crepacci!». Invece, eccomi al Castore poco prima di compiere 16 anni. In effetti, concordavo con Gaston Rebuffat che l'aria a quattromila metri avesse un sapore particolare. Ci presi gusto, grazie a un programma di gite sociali del CAI Biella che poi, da metà anni novanta, ci saremmo sognato: i quattromila facili del Rosa e del Vallese, il Gran Paradiso, il Bianco e il Tacul, il Bernina; persino la Barre des Écrins! Intanto, cominciai ad aggiungere altre vette facili in autonomia, con gli amici conosciuti nelle uscite collettive: in totale, 19 alla soglia dei 26 anni. In seguito, gli impegni di studio e lavoro, con una vita sempre più centrata su Torino, implicarono un “digiuno” di ben 6 anni.
Con regolarità, tornai in quota grazie a nuove amicizie maturate presso il CAI UGET e la Scuola Gervasutti a partire dal 2003, il primo annus horribilis del gran caldo. Ancor vivido è il ricordo, alle luci dell'alba durante la salita al Rimpfischhorn, dei rigagnoli d'acqua che scorrevano sul Längfluegletscher, e io coperto quasi solo d'un leggero pile. Uno scenario per me del tutto inedito, rispetto al decennio (millennio) precedente.
Più di prima, ma non come prima
Da allora, il mondo della montagna ha cominciato rapidamente quanto inesorabilmente a cambiare; così come, in un curioso parallelo, era radicalmente cambiata la tecnologia: dall'analogico al digitale (da allora mi ritrovai i file immagine al posto delle stampe fotografiche). Subentra, nella pianificazione delle uscite, un surplus di progettualità (e di ansia, per il sottoscritto, appassionato ma semplice “alpinista della domenica”): non basta controllare il meteo ma, per le salite restanti, che già sono tecnicamente più impegnative, occorre capire le condizioni, anticipare i tempi (dell'orologio e del calendario), alla bisogna modificare il percorso della salita stessa. E, d'ogni modo, anche in presenza dei requisiti, i margini di sicurezza si assottigliano assai, mentre crescono esponenzialmente i rischi oggettivi.
Ad esempio, ricordo che la salita al Bernina dalla via italiana, il 19 luglio 1992, fu quasi una passeggiata (mentre oggi non mi risulta più tale). L'anno scorso, le Droites a fine maggio presentavano le condizioni di fine agosto. Nel 2019 (solo in parte complici gli impegni personali) non si trovò mai una finestra utile per approcciare con un minimo di sicurezza la cresta del Brouillard. Nel 2010 una pietra (fortunatamente piccola) mi colpì al mento mandandomi KO e procurando la frattura della mandibola mentre scendevo dalla parete sud della Lenzspitze lungo un itinerario poco difficile ma, non a caso, ormai negletto. O ancora, il ricordo di transiti, nello stesso luogo e all'incirca nello stesso frangente temporale dove, di lì a poco, si sarebbero consumate tragedie: sui pendii del Tacul 11 giorni prima della valanga che nell'agosto 2013 travolse due alpiniste italiane; sotto il Col du Meitin, sulla via dei Combin, 27 giorni prima che nell'agosto 2019 una scarica di sassi facesse altre due vittime.
E anche quando ora le condizioni sono buone, esse non sono generalmente paragonabili a quelle del secolo precedente. A livello “macro”, la montagna è profondamente mutata: lisce placconate compaiono laddove i ghiacciai si ritirano, mentre i loro bordi si allontanano dalle pareti impedendone l’approccio; canaloni nevosi più ripidi per effetto della riduzione della coltre alla base; crepacci terminali che, anche quando chiusi, possono presentare notevoli salti di quota tra i due lembi; terreni misti più insidiosi, con meno neve, più sabbia e più ghiaccio; seraccate pensili assai più precarie; generale instabilità geologica dovuta alla riduzione del permafrost.
Una situazione che ha certamente contribuito in me ad accrescere consapevolezza, responsabilità e competenza circa le modalità di affrontare le salite, ma che ha anche conferito alle stesse un pathos per così dire “eteronomo”; un surplus d'ingaggio psicologico si somma a quello legato alle intrinseche difficoltà tecniche di una via. Tant'è che, in merito a ciò, spesso le valutazioni sovrappongono i due piani. Credo che invece, soprattutto oggi, bisognerebbe scindere la valutazione dell'impegno da quella del rischio oggettivo.
In cordata
Dopo gli esordi giovanili con gli amici (Roberto, Silvio, Giovanna, Alberto, Renato, Giorgio), l'età adulta è quella degli accoppiamenti (e tradimenti): perché legarsi con qualcuno all'altro capo della corda è, a volte, cosa più seria dell'amore. Così, dopo un paio d'anni interlocutori con Andrea, lo tradisco per fare coppia fissa con Federico, conosciuto in punta al Polluce (ove ero salito con Andrea). Dal 2006, sono stati dieci anni intensi, nei quali sono cresciuto molto, ho affrontato razionalmente i miei molti limiti (tecnici e psicologici), migliorando le prestazioni ma aumentando la prudenza (sottoscrivo quanto sentii affermare da Reinhold Messner durante una conferenza: «L'alpinismo è paura di morire per non morire»), conducendo anche da primo di cordata. Insieme abbiamo raggiunto 31 vette, spronati anche dal “quorum” per iscriversi al Club. Insieme esplorammo a piedi (non sono uno scialpinista) in lungo e in largo l’Oberland, tornandoci ripetutamente, da vari versanti, perché ogni volta, per via della nostra lentezza, lasciavamo indietro qualcosa. Nel 2016, l’anno di grazia (Bionnassay, Weisshorn, Cervino e Täschhorn); ma anche, subito dopo, la crisi. Lui non se la sentiva più.
Mi trovai perso, a quota 58. I miei amici erano tutti meno preparati e, non amando le relazioni occasionali, faticavo a legarmi con ignoti per le vette che reputavo ancora alla mia portata, anche da primo di cordata: Obergabelhorn, Combin de la Tsessette, Schreckhorn e Lauteraarhorn. Le salii infatti con tre compagni diversi (Carlo, Pierpaolo e Vittorio), rivelatisi in realtà assolutamente all’altezza (per la serie, se ci fossimo conosciuti prima…).
Nel frattempo s’era cominciato a insinuare il tarlo di completare la collezione. Un’idea che in precedenza, non ritenendomi all’altezza, non avevo manco lontanamente considerato. Per farlo, però, dovevo appoggiarmi a qualcuno più forte di me, che andasse da primo. Fu dunque naturale l’idea di rivolgersi a una guida alpina. In un rapporto di crescente stima, fiducia e amicizia, con Luca Argentero, fin dall’inizio accompagnato dall’allievo Pietro Picco, e poi con il solo Pietro una volta laureato, abbiamo inanellato le varie salite nel gruppo del Bianco, per me off limits: traversata delle Jorasses (2016), Diables (2018), creste del Brouillard (2020) e di Peuterey (2021), Droites con traversata verso l’Arête du Jardin, nel tentativo di raggiungere le ultime quattro vette mancanti con un'unica ascensione (con rinuncia al Colle dell’Aiguille Verte, 2022), Arête du Jardin (2023).
Negli ultimi due anni, tuttavia, più si avvicinava il traguardo e più percepivo una sorta di peso, quasi d'incombenza verso un dovere da espletare. Ad ogni inizio stagione, crescevano i timori circa la possibilità d'incrociare le citate “finestre” con i rispettivi impegni personali. Suggestivi, indimenticabili, ma altrettanto psicologicamente vessanti, per il povero alpinista della domenica, anche i bivacchi precari in quota alla belle étoile: al Col Emile Rey sulla Brouillard, fermi 16 ore per attendere il rigelo; nei pressi della vetta del Grand Pilier d’Angle alla Peuterey; sulla spalla delle Droites per essere già in alto in vista della lunga traversata di cresta.
Il più e il meno
Tutti te lo chiedono. Qual è stata la più bella? E la più difficile? Verrebbe sempre da rispondere: «l’ultima». Perché ha il suo peso, a doppia mandata, la memoria. Da un lato perché, delle salite precedenti, con lo scorrere del tempo si smorzano le sensazioni di difficoltà e pericolo, che lasciano spazio ai ricordi più piacevoli, ma anche sfumati. Mentre al contrario, dell’ultima ascensione ti resta tutto sulla pelle, perché sono emozioni ancora vivide. Ed essendo che mi erano rimaste alla fine tutte le cose più difficili, ogni volta mi è sembrata la più difficile (ma anche la più bella).
In realtà, porto nel cuore le uscite giovanili “spensierate” (talvolta in cordata si cantava pure), il primo itinerario fuori da una via normale (la Festigrat al Dom de Mischabel, a vent’anni), la Barre des Écrins raggiunta solo al quarto tentativo sempre causa maltempo (la cima che, da questo punto di vista, si è fatta più desiderare, considerando che le rinunce totali sono state 11), il Finsteraarhorn in condizioni semi-invernali dopo una nevicata estiva, la Gran Becca in traversata Italia-Svizzera, in omaggio alla storia (perché il Cervino è il Cervino), il “tirare da primo” sul temibile sperone dello Schreckhorn, la solitudine himalayana del Lauteraarhorn (che mi pareva irraggiungibile anche metaforicamente, perché mai riuscivo a combinare la salita), tutte le traversate nel gruppo del Bianco.
Quanto a difficoltà, la percezione è variata a seconda del mio grado di progressiva maggiore preparazione (per ora, con l’invecchiamento, è andata come per il vino buono). Così, all’epoca trovai assai impegnativa la gobba nevosa sotto il Lyskamm occidentale e la discesa dal Lyskamm orientale (ma non il tratto tra i due), la traversata dei Breithorn, il passo della placca Biner allo Zinalrothorn, il tratto finale della cresta Nord-Est all’Obergabelhorn. Poi, tra le ascensioni guidate, la scalata senza percorso obbligato alla punta Young delle Jorasses e tutta l’arrampicata delle Diables (che però conferisce un certo senso di sicurezza, potendo procedere con effettivi tiri di corda), il canale sotto il Picco Luigi Amedeo alla Brouillard, da affrontare nottetempo con ramponi su difficoltà che appena reggo in assolate falesie calzando le scarpette, i terreni misti e super-esposti della traversata delle Droites e della prima parte della Jardin, entrambi da tracciare. Ho discretamente patito anche la salita del Couloir Armand Charlet: forse perché, in tutti i sensi, è stata l’ultima salita!
Mai avuto davvero paura? Sì, nei traversi vetrati sotto il Nadelhorn, in uscita dalla Nadelgrat e (l’avreste mai detto?) due volte in un breve tratto tra Bianco di Courmayeur e vetta principale, dopo aver superato gli ostacoli ben più ardui di Brouillard (fisicamente, forse l’ingaggio più impegnativo di tutti, insieme alla traversata delle Jorasses, compiuta in 24 ore dal rifugio Torino al Boccalatte) e Peuterey. Ma la paura davvero più grande, che mi ha fatto appellare a tutti i santi del Paradiso, è legata a un pericolo oggettivo: il tremendo temporale che ci ha colti improvvisamente alle spalle di rientro dallo Zinalrothorn, quando ancora affrontavamo le ultime rocce prima del ghiacciaio, con un fulmine deflagrato sulle nostre teste, mentre la montatura metallica degli occhiali di Federico “friggeva”: lì ho capito che cosa significa essere, noi piccoli umani, in balia della soverchiante forza della natura.
Ma, in assoluto, l’emozione più grande è stata, su molte delle 82 vette, sempre la stessa: l’irrefrenabile pianto dirotto, di gioia (e, a volte, di momentaneo sfogo della tensione), per ringraziare l’unica cosa che, di più alto, ci fosse nei dintorni: il Cielo.
Luca Gibello
(giornalista di architettura; fondatore e presidente dell’associazione culturale Cantieri d’alta quota; già membro del Consiglio direttivo del Club4000)